Non piangete troppo! Nobile colui che cadde,
Degna la sua morte. Davanti alla sua tomba
Donne singhiozzeranno. La guerra ora ci chiama!
Eppure egli stesso piangeva. “Che gli uomini della sua scorta rimangano qui”, egli disse, “e portino via con onore il suo corpo dal campo, affinché la battaglia non lo calpesti! Sì, il suo e quello di tutti i suoi uomini che giacciono qui”. Allora guardò i caduti, rammentando i loro nomi. Poi ad un tratto vide Éowyn, sua sorella, e la riconobbe. Fu come se una freccia l’avesse trafitto al cuore; il suo viso divenne bianco come la morte e in lui si levò una gelida furia che lo rese muto per qualche tempo. Un sentimento di morte s’impadronì di lui. “Éowyn, Éowyn!”, gridò infine. “Éowyn, come sei giunta tu sin qui? Quale follia o diabolico artifizio è questo? Morte, morte, morte! Che la morte ci prenda tutti!”. Poi senza attendere oltre, né aspettare l’arrivo degli uomini della Città, si lanciò a capofitto contro l’avanguardia dell’esercito nemico, e soffiando nel corno ordinò la carica. Su tutto il campo si udì la sua limpida voce gridare: “Morte! Galoppate, galoppate verso la rovina e la fine del mondo!”. E con queste parole l’esercito balzò in avanti. Ma i Rohirrim più non cantavano. Morte, gridavano con un’unica voce forte e terribile, e prendendo velocità come un’immensa marea spazzarono tutto ciò che circondava il loro re caduto e passarono come un turbine ruggendo verso sud. E Meriadoc l’Hobbit era ancora lì in piedi, e sbatteva gli occhi per le lacrime, e nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno sembrava addirittura accorgersi della sua presenza, Si asciugò le lacrime, e chinatosi a raccogliere lo scudo verde che Éowyn gli aveva dato, se lo mise in spalla. Poi cercò la spada che gli era caduta di mano: perché nel vibrare il colpo il suo braccio era rimasto come intorpidito, ed ora non poteva adoperare che la mano sinistra. Vide la sua arma per terra e, meraviglia! la lama fumava come un ramo secco gettato nel fuoco; ed egli che l’osservava la vide accartocciarsi, incenerirsi e scomparire. Tale fu la fine della spada dei Tumulilande, forgiata nell’Ovesturia. Ma ben felice di conoscerne il destino sarebbe stato colui che l’aveva fabbricata anni ed anni addietro nel regno del Nord quando i Dunedain erano ancora giovani, e il principale nemico era il terrificante regno di Angmar e il suo re negromante. Nessun’altra lama, anche se forgiata da mani più possenti, avrebbe procurato a un simile avversario una ferita così profonda, affondando nella carne viva e rompendo l’incantesimo che gli permetteva di rimarginare i propri tendini con la sola forza del volere. Gli uomini sollevarono il re e, tesi dei manti su tronconi di spade, riuscirono a portarlo sino alla Città; altri alzarono dolcemente Éowyn e camminarono dietro al corteo del re. Ma era impossibile allontanare dal campo anche gli uomini della scorta del re, poiché sette di essi erano caduti, e fra essi anche Déorwine, il loro capo. Allora, raggruppandoli lontano dai nemici e dall’orrida bestia, li circondarono con una palizzata di lance. E quando ebbero finito, gli uomini tornarono e fecero un grande fuoco, bruciando la carogna della bestia; ma per Nevecrino scavarono una fossa sulla quale fu messa una lapide che recava, nelle lingue di Gondor e del Mark, la seguente scritta:
Fedele servitore eppur rovina del padrone,
Nato da Pieleggero, Nevecrino è il suo nome.
J.R.R.Tolkien, Il signore degli anelli
_Vardilme
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