SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 10: “Approximate equivalents” (parte 4)

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Nello scorso appuntamento abbiamo menzionato, in mezzo agli altri argomenti, l’antipatia di Tolkien per il mondo “leggiadro e minuscolo” delle “fate” e degli “elfi” così come queste creature del folklore erano state interpretate dalla cultura inglese a partire dal XVI secolo.

Tuttavia, è bene specificarlo, Tolkien non era certo arrivato a questa visione in un’unica soluzione, o senza prima compiere escursioni (forse “punitive”?) perfino in questo “mondo fatato”!

Basti vedere la poesia Errantry (tradotta in italiano “Alla ventura” o “Il cavaliere errante”), che non disdegna richiami proprio all’immaginario danty and diminuitive che abbiamo evocato poc’anzi. Vediamone alcuni versi:

He wove a tissue airy-thin

to snare her in; to follow her

he made him beetle-leather wing

and feather wing of swallow-hair.

He caught her in bewilderment

with filament of spider-thread;

he made her soft pavilions

of lilies, and a bridal bed

of flowers and of thistle-down

to nestle down and rest her in;

and silken webs of filmy white

and silver light he dressed her in.

D’aria una rete ricamò:

la farfalla volea impigliar;

per inseguirla, ali con

piume e membrane volle far.

Così la prese di sorpresa

con una ragnatela tesa;

fece un palazzo soffice

di gigli, e un bel letto nuzial

di fior, corolle e calici

per rifugiarsi e riposar;

con veli e seta la vestì,

di luce bianca e argentea.

Traduzione di Isabella Murro

(Bompiani, 2000)

Per poterla catturare / una rete assai leggera

e sottile ad agitare / con astuzia cominciò.

Anche l’ali per volare / e inseguirla, con membrane

di coleotteri e con piume / di rondoni fabbricò.

La sorprese, in un momento / di leggero smarrimento,

e con una ragnatela / finalmente la acchiappò.

Tende morbide di gigli / ed un bel letto nuziale

di lanuggine e di fiori / per la bella preparò.

Padiglioni profumati / per potersi rifugiare

e tranquilla riposare / gentilmente le donò.

Indossar le fece veli, / sete come nebbia bianche,

come luce argentee, ed anche / con gioielli la adornò.

Traduzione di Bianca Pitzorno e Maria Teresa Vignolo

(Rusconi, 1978)

Illustrazione di Pauline Baynes per Errantry (The Adventures of Tom Bombadil, 1962)

Potremmo dire che questa poesia (alla quale dedicheremo un futuro appuntamento all’interno della rubrica sull’Evoluzione della Leggenda) ha le sue giustificazioni stilistiche “interne” nel fatto che è stata composta da Bilbo come reinterpretazione, non troppo seria, del mito di Eärendil. Dunque per certi versi potrebbe perfino fungere da “parodia” della poesia leziosa sugli elfi-spiritelli della tradizione inglese post-XVI secolo.

Scrive Tolkien nella Prefazione a Le Avventura di Tom Bombadil, dove questa poesia compare:

[…] è un esempio di un altro genere che sembra divertire gli Hobbit: una poesia o una storia la cui fine riprende l’inizio, e può così essere recitata finché gli ascoltatori non si ribellano. Se ne trovano molti esempi nel Libro Rosso, ma gli altri sono più semplici e rozzi; [questa] è la più lunga ed elaborata e fu evidentemente composta da Bilbo, come indica chiaramente la relazione con quella, più lunga, da lui recitata (quale composizione) nella casa di Elrond. In origine filastrocca in versi, nella versione di Rivendell risulta trasformata e riferita, un po’ incongruentemente, alle leggende alto-elfiche e númenoreane di Eärendil, forse perché Bilbo ne aveva inventato lo schema metrico, e ne andava fiero. Tale schema non compare in nessun’altra poesia del Libro Rosso. La forma più antica – che è quella qui riportata – deve appartenere al periodo immediatamente successivo al ritorno di Bilbo dal suo viaggio. Sebbene l’influenza delle tradizioni elfiche sia evidente, esse non sono trattate in modo serio, e i nomi usati (Derrilyn, Thellamie, Belmarie, Aerie) sono pure invenzioni in stile elfico, che in realtà elfiche non lo sono affatto.

Oltre a questa divertente “sortita” nello stile poetico e nell’utilizzo di certe metafore, vorrei ricordare quanto abbiamo detto in precedenza (per esempio sul progressivo abbandono dell’aggettivo elfin) riguardo ad alcuni cambiamenti nelle “scelte traduttive” dei termini correlati agli Elfi.

  • In particolar modo ricordiamo le sue remore sul termine gnome “gnomo”, che lui intendeva come resa di Golodh < ✶ñgolodō < √ÑGOLOD (“Elfo Noldo”), attraverso un richiamo al greco γνώμη “pensiero, intelligenza”, ma che si rese conto essere troppo facilmente riconducibile all’idea dello gnomo secondo Paracelso, che lo intendeva come sinonimo di “pigmeo” e grazie al quale a partire dal XVI secolo si è diffuso il concept dello gnomo come “piccola creatura magica con la terra come suo elemento distintivo”. Tutto questo fece sì che intorno al periodo dello Hobbit Tolkien abbia abbandonato il termine “gnomi” per “Noldor” definitivamente.

  • Anche fairy “fata”, inizialmente utilizzato da Tolkien come sinonimo di elf, e in particolare per tutti gli Elfi che non fossero classificabili come Gnomi, subì la medesima sorte di gnome, per motivi simili a quelli che abbiamo esposto sopra: fay, faërie, fairy (rispettivamente “fata”, “feeria” e “fatato”) derivano tutti dall’antico francese faierie, termine introdotto in inglese in tempi abbastanza recenti (prima del 1450, ci dice Tolkien sempre in On Fairy-Stories, è attestata una sola occorrenza del poeta John Gower, contemporaneo di Chaucer), e dunque erano in fin dei conti termini inadatti a restituire i primigeni Elfi di Arda.

Come dicevamo già la volta scorsa per i Nani, queste trasformazioni, questi assestamenti nel linguaggio utilizzato hanno determinato un percorso progressivo di ricerca, di continui aggiustamenti stilistici, di graduale ottenimento della giusta “atmosfera”, tanto delle caratteristiche di queste entità quanto della loro resa onomastica; percorso non privo di sperimentazioni e contraddizioni.

Tutto ciò, da un punto di vista letterario, rientra chiaramente in quel procedimento di “riscrittura creativa” che abbiamo descritto in passato: il timbro e l’identità, unici in un certo senso, del Legendarium tolkieniano sono frutto di questa attenta calibratura di ispirazioni differenti. Tuttavia, in questo discorso vi è un importante caveat da considerare, ed è ciò che tratteremo in maniera più esaustiva leggendo insieme la Lettera 297 a partire dal prossimo post.

Alla prossima!

-Rúmil

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