[…] nessuna lingua si studia giustamente solo come aiuto per altri scopi. In effetti servirà meglio ad altri fini, filologici o storici, se viene studiata per amore, per se stessa. […]
Per quanto mi riguarda, direi che più che il desiderio del linguista pratico di acquisire la conoscenza del gallese per ampliare la propria esperienza, più ancora dell’interesse e del valore della letteratura antica e recente, che in esso è custodita, mi sembrano importanti questi due aspetti: il gallese è di questa terra, di quest’isola, è la lingua più vecchia degli uomini di Britannia; e il gallese è bello.
Ora non tenterò di spiegare cosa intendo dire definendo “bella” una lingua nel suo complesso, né in quali modi il gallese mi appaia bello; infatti, la semplice presa d’atto di una percezione personale, e se volete soggettiva, di un forte piacere estetico in contatto con il gallese, ascoltato o letto*, [*Infatti, vi è un piacere concomitante dell’occhio in un’ortografia che è cresciuta con una lingua materna, anche se molti riformatori della scrittura sono insensibili a esso.] è sufficiente per la mia conclusione.
Il piacere basilare dato dagli elementi fonetici di una lingua e dallo stile dei suoi schemi, e poi, in una dimensione più alta, il piacere dell’associazione di queste forme verbali con i significati ha un’importanza fondamentale. Questo piacere è molto diverso dalla conoscenza pratica di un’altra lingua, e non è lo stesso della comprensione analitica della sua struttura. È più semplice, ha radici più profonde, eppure è più immediato del godimento letterario. Benché possa essere legato a certi elementi dell’apprezzamento poetico, non ha bisogno di altri poeti che non siano gli ignoti artisti che composero la lingua. Si può essere toccati profondamente dalla pura e semplice contemplazione di un vocabolario, o da una serie di nomi.
Da “Inglese e Gallese” – tratto da Il Medioevo e il Fantastico
-Rúmil