
Così nel mondo vennero gli Ainur, che noi chiamiamo i Valar, o le Potenze, ed essi dimorarono in molti luoghi: nel firmamento, negli abissi del mare, sulla terra, o a Valinor ai confini del mondo. I quattro più grandi erano Melko, Manwë, Ulmo e Aulë.
Melko a lungo vagò da solo, ed egli brandiva sia fuoco che gelo, dai Muri del Mondo fino alle più profonde fornaci sotto la sua superficie, e tutto ciò che è violento o smodato, improvviso o crudele risale a lui, e per lo più giustamente. Pochi della razza divina lo seguirono, e dei Figli di Ilúvatar nessuno l’ha più seguito, se non come schiavo, e i suoi compagni erano di sua fattura: gli Orchi e i demoni che a lungo hanno tormentato la terra, affliggendo Uomini ed Elfi.
Ulmo ha sempre dimorato nell’Oceano Esterno e presieduto allo scorrere di tutte le acque e ai corsi di tutti i fiumi, al rinnovarsi delle sorgenti e allo stillare della pioggia e della rugiada in tutto il mondo. Nei luoghi profondi egli dà vita a una musica grande e terribile, la cui eco traversa tutte le vene del mondo e la cui gioia è come quella di una fontana al sole, le cui sorgenti sono quelle del dolore insondato alle fondamenta del mondo. I Teleri hanno appreso molto da lui, e per questo la loro musica è assieme triste e incantevole. Con lui venne Salmar, che fabbricò le buccine di Ulmo; Ossë e Uinen, ai quali affidò il controllo delle onde e dei mari interni, e molti altri spiriti ancora.
Aulë dimorava a Valinor, nella cui costruzione egli ebbe massima parte, e realizzò molte cose sia apertamente che in segreto. Da lui provengono l’amore e la conoscenza delle sostanze della terra, il dissodamento e la coltivazione e i mestieri della tessitura, dei metalli battuti e la foggiatura del legno. Da lui proviene la scienza della terra, della sua composizione e la conoscenza dei suoi elementi, la loro mescolanza e mutazione. Da lui i Noldor appresero molto nei giorni che seguirono, ed essi sono i più saggi e abili tra gli Elfi. Ma essi assommarono molto ai suoi insegnamenti e si dilettarono grandemente con i linguaggi e gli alfabeti e con le fogge del ricamo, del disegno e dell’intaglio. Poiché l’arte era il dono speciale dei figli di Ilúvatar. E i Noldor riuscirono a concepire le gemme, che non erano nel mondo prima di loro; e le più belle di tutte le gemme erano i Silmaril, che sono andati perduti.

Ma il più grande e santo dei Valar era Manwë Sulimo, ed egli aveva la sua dimora a Valinor, assiso in maestà sul suo trono; ed esso si ergeva sul pinnacolo di Taniquetil, che è la più alta delle montagne del mondo e svetta sui confini di Valinor. Spiriti in forma di falchi e aquile volavano sempre dalla sua casa e verso di essa, e i loro occhi penetravano fino nelle profondità del mare e affondavano nelle caverne nascoste sotto il mondo, e le loro ali li portavano attraverso le tre regioni del firmamento, oltre le luci del cielo fino ai confini delle tenebre; ed essi gli recavano notizie di quasi tutto ciò che accadeva; eppure alcune cose restano celate persino agli occhi di Manwë.
Con lui era Varda la più bella. Ora, gli Ainur che vennero nel mono presero sembianza e forma, proprio come quella dei Figli di Ilúvatar che erano nati nel mondo; ma la loro forma e sembianza è più grande e bella e deriva dalla conoscenza e dal desiderio della sostanza del mondo piuttosto che dalla sostanza medesima, e non sempre può essere percepita, anche quand’essi sono presenti. Perciò alcuni di loro presero forma e carattere di femmina e altri di maschio. Ma Varda era la Regina dei Valar e sposa di Manwë; ella foggiò le stelle e la sua bellezza è alta e sublime, e la si invoca con reverenza. Progenie di Manwë e Varda sono Fionwë Úrion, il loro figlio, e Ilmar, la loro figlia; questi sono i più vecchi tra i Figli degli Dèi. Essi dimorano con Manwë e con loro v’è una grande schiera di spiriti gentili che conoscono grande felicità. Gli Elfi e gli Uomini amano Manwë sopra tutti i Valar, poiché egli non è bramoso del proprio prestigio, né geloso del proprio potere, ma unicamente dedito alla concordia. Tra tutti gli Elfi, i Lindar sono quelli che egli ama di più, e da lui essi ricevettero il canto e la poesia, poiché la poesia è il diletto di Manwë e il canto delle parole è la sua musica. Ecco che la veste di Manwë è azzurra, e azzurro è il fuoco dei suoi occhi, e il suo scettro è di zaffiro; ed egli è re in questo mondo per Dèi, Elfi e Uomini, e la principale difesa contro Melko.
Dopo la partenza dei Valar per un’era vi fu silenzio e Ilúvatar rimase assiso da solo a pensare. Infine Ilúvatar parlò e disse: “Ecco, io amo il mondo ed esso è dimora per Elfi e Uomini. Ma gli Elfi saranno le più belle fra le creature terrene, avranno e concepiranno più bellezza di tutti i miei figli e conosceranno maggiore beatitudine in questo mondo. Tuttavia agli Uomini io farò un dono nuovo.”

Perciò egli volle che i cuori degli Uomini dovessero cercare al di là del mondo e in esso non trovassero requie; ma che possedessero la virtù di modellare la loro vita, tra le forze e le possibilità del mondo, al di là della Musica degli Ainur, che è come un destino per tutte le altre cose. E grazie alla loro opera tutto avrebbe dovuto ottenere compimento, in forma e in atto, e il mondo esser completato fin nel suo ultimo e più infimo aspetto.
In verità, anche noi Elfi abbiamo scoperto con dolore che gli Uomini detengono uno strano potere, sia nel bene che nel male, e nel deviare le cose dal proposito dei Valar o degli Elfi; così si dice tra noi che il Fato non è padrone dei figli degli Uomini; eppure essi sono ciechi e la loro gioia è piccola cosa, mentre dovrebbe essere grande.
Ma Ilúvatar sapeva che gli Uomini, trovandosi in mezzo alle turbolenze delle potenze del mondo, spesso avrebbero traviato e non avrebbero usato il loro dono in armonia; ed egli disse: “Anche loro, a tempo debito, vedranno che ogni loro gesto contribuisce infine unicamente alla gloria della mia opera.” Eppure gli Elfi dicono che gli Uomini spesso costituiscono un dolore persino per Manwë, che conosce la maggior parte della mente di Ilúvatar. Giacché gli Uomini somigliano a Melko più di tutti gli Ainur, eppure lo hanno sempre temuto e odiato. Tutt’uno con questo dono di libertà è che i figli degli Uomini dimorano solo per un breve periodo vivi nel mondo, eppure non sono vincolati a esso, né periranno del tutto e per sempre. Gli Eldar, invece, permangono fino alla fine dei giorni e il loro amore per il mondo è pertanto più profondo e doloroso. Tuttavia essi non periscono, finché il mondo stesso non muoia, a meno che vengano uccisi o si consumino per il dolore – perché a entrambe queste apparenti morti sono soggetti – né l’età ha la meglio sulla loro forza, a meno che non si stanchino di diecimila secoli; e spirando essi si riuniscono nelle sale di Mandos a Valinor, dalle quali spesso fanno ritorno per rinascere nei loro figli. I figli degli Uomini invece muoiono veramente. Eppure si dice che essi si uniranno alla Seconda Musica degli Ainur, mentre Ilúvatar non ha rivelato quali siano i suoi disegni per gli Elfi e i Valar dopo la fine del mondo; e Melko non li ha scoperti.
COMMENTO
Con questo brano si conclude la versione “intermedia” dell’Ainulindalë, scritta da Tolkien intorno alla metà degli anni ’30. Si tratta della prima occorrenza di questa storia dai tempi del Racconto Perduto La Musica degli Ainur, scritto tra il 1918 e il 1920, nonché dell’ultima versione antecedente Il Signore degli Anelli.
Come già rimarcato, questo mito è uno di quelli che ha subito meno modifiche radicali nel corso dell’evoluzione delle leggende di Arda, mantenendosi in forme tutto sommato simili fra loro fino alla versione “definitiva”, scritta da Tolkien dopo aver completato la stesura del SdA (tra il ’46 e il ’48, e revisionata a più riprese fino al 1951 ca.), riportata in Morgoth’s Ring (X volume della HoME) e che costituisce il principale testo su cui si basa la versione offerta nel Silmarillion edito del 1977.
Tuttavia, esiste una modifica invero piuttosto importante che intercorre tra queste versioni: l’ Ainulindalë che abbiamo qui proposto non includeva ancora il concetto di Eä (“Sia!”, ovvero il Mondo che È, l’universo): il Mondo (“Ilu“, “il Tutto”) viene creato direttamente dall’atto sub-creativo degli Ainur, e l’intervento di Eru per conferire, attraverso la Fiamma Imperitura, esistenza e attuazione al Canto sembra essere contestuale ad esso; Eru non mostra loro alcuna Visione sulla storia e il destino del Mondo, ma direttamente gli effetti della Grande Musica, e questi sono GIÀ il Mondo nella sua forma pressoché definitiva; pertanto i Valar che giungono in Arda (“Terra”) vi trovano già esattamente quello che hanno contemplato dalle Aule Atemporali e non provano lo smarrimento di cui parla questo passo del Silmarillion:
Ma quando i Valar entrarono in Eä, rimasero dapprima sbigottiti e smarriti, perché era come se nulla fosse ancora stato fatto di ciò che avevano scorto in visione, e tutto era solo all’inizio e ancora informe e buio. Ché la Grande Musica non era stata che il crescere e il fiorire di pensieri nelle Aule Atemporali, e la Visione soltanto un preannuncio; ma adesso i Valar erano entrati in Eä all’inizio del Tempo, e si resero conto che il Mondo era stato soltanto presagito e precantato, e ad essi spettava di attuarlo. Così ebbero inizio le loro grandi fatiche in deserti incommensurati e inesplorati e in età innumerevoli e dimenticate, finché nelle profondità del Tempo e nel mezzo delle vaste aule di Eä venne in essere quell’ora e quel luogo in cui fu fatta la dimora dei Figli di Ilúvatar.
Questa modifica concettuale fa dunque parte dell’ultima fase del Legendarium, cui Tolkien lavorò a partire dagli anni ’50, quando riprese in mano le vecchie carte sui racconti dei Giorni Antichi, compresi i poemi (è questo il periodo in cui realizzò la seconda versione del Lai del Leithian) e gli Annali (che aggiornò componendo gli Annali di Aman e gli Annali Grigi), e tentò di riorganizzarli, puntando a rendere coerenti quei testi, risalenti a ormai vent’anni prima, con ciò che era nel frattempo emerso dalla stesura del Signore degli Anelli, e l’espansione del Legendarium in una struttura più complessa, quella delle Ere dei Figli di Ilúvatar.
Con il sorgere dei concetti di “Terza Era”, “Giorni Antichi”, la materia del “Silmarillion” ebbe immediatamente bisogno di un radicale ripensamento. Tuttavia l’opera strettamente narrativa, benché espansa e approfondita con atteggiamento quasi maniacale, non fu mai completata in ogni sua parte: è paradossale riconoscerlo, ma Il Signore degli Anelli rappresentò in ogni caso una battuta d’arresto per la prosecuzione del “Silmarillion”, e da questo dipendono alcuni dei “rimpianti” di tutti noi lettori di Tolkien (rimpianti che saranno a loro volta appartenuti in origine allo stesso Tolkien), come la mai completata storia di Tuor e della Caduta di Gondolin, nella sua versione definitiva (ciò che ne esiste è quanto riportato nei Racconti Incompiuti, Tuor e il suo arrivo a Gondolin); la sostanziale assenza di una versione definitiva o “ufficiale” del Mito di Eärendil; o appunto il mai completato Lai del Leithian, cui Tolkien rimise sì mano negli anni ’40-’50, ma che, in questa riscrittura “da capo”, non superò mai il punto in cui era arrivato alle soglie degli anni ’30.
Vedremo in futuro alcuni raffronti tra il “prima” e il “dopo” SdA, per mostrare plasticamente come la concezione fosse evoluta, e quanta strada avesse percorso il pensiero di Tolkien sulla propria sub-creazione, tanto da spingere i suoi interessi sempre più, anziché verso una revisione esaustiva e totale della narrativa, in una direzione orientata a certi “estremi” di worldbuilding e di speculazione filosofica, o all’avanzare e perfezionarsi della concezione linguistica, che fu l’unica reale costante di tutto questo percorso.
A tal proposito vedremo, dalla prossima volta, il LHAMMAS, il “resoconto delle lingue”. Testo ancora una volta degli anni ’30 (parte di quel complesso di testi, che include gli Annali e l’ Ainulindalë che, insieme al Quenta, avrebbero dovuto comporre “Il Silmarillion”, secondo il “piano dell’opera” che all’epoca Tolkien aveva in mente, come si mostra dai frontespizi e dagli indici).
Il Lhammas si propone di compendiare e analizzare l’evoluzione dei vari idiomi elfici, mettendoli inevitabilmente in relazione con le migrazioni e scissioni cui andò incontro il popolo dei Quendi nei primi millenni della sua esistenza. Sebbene la concezione linguistica e narrativa qui rappresentata sia appunto ancora precedente al SdA (a partire da alcuni nomi propri di popolazioni e lingue, e per quanto riguarda alcuni dettagli “storico-linguistici”, che verranno modificati ancora in seguito, nelle versioni successive del Silmarillion), questo fondamentale testo saggistico di natura etnico-linguistica rappresenta cionondimeno un tassello centrale per la comprensione dei meccanismi che soggiaciono all’evoluzione delle lingue, come mostrano anche i diversi schemi dell’Albero delle Lingue che Tolkien realizzò e che riproporremo per una più chiara schematizzazione di quanto scritto nel testo.
Tratto dall’Ainulindalë, in La Strada Perduta e Altri Scritti, V volume della Storia della Terra di Mezzo
-Rúmil